
Tel Aviv, 19 Ottobre 2025 – La notizia di una potenziale “ricandidatura” del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, benché non formalizzata (le elezioni sono previste non prima del 2026, ma si specula su un voto anticipato), non è un annuncio di ambizione, ma un calcolo di sopravvivenza politica. L’analisi degli articoli internazionali degli ultimi giorni rivela che l’unica via per Netanyahu per resistere alle crescenti richieste di responsabilità interna e alla pressione geopolitica di Washington è quella di rimanere al potere.
Il suo destino politico è appeso a un filo sottile, bilanciato tra un processo per corruzione in corso, la bomba a orologeria di un’inchiesta di Stato e l’ultimatum della sua stessa coalizione di estrema destra.
La Corsa contro l’Inchiesta
La minaccia più immediata per Netanyahu è la richiesta di istituire una Commissione di Stato per indagare sui catastrofici fallimenti di sicurezza che hanno preceduto gli attacchi del 7 ottobre 2023. La pressione è istituzionale: il Presidente Isaac Herzog ha chiesto un’indagine “approfondita” e l’Alta Corte di Giustizia ha stabilito che non esiste “alcun argomento reale” contro la sua necessità.
Di fronte a ciò, la strategia di Netanyahu è dilatoria: ha confermato che l’inchiesta può essere istituita solo dopo la fine della guerra. Mantenere lo stato di ambiguità operativa—insistendo sul fatto che “la battaglia non è ancora finita” — è essenziale per legittimare il ritardo, usando lo stato di guerra come scudo legale.
In parallelo, il Primo Ministro è costretto a fronteggiare i suoi problemi legali personali. Solo il 15 ottobre è comparso in tribunale per testimoniare nel suo processo per corruzione, mentre a Tel Aviv si tenevano proteste. Pochi giorni prima, il 13 ottobre, l’ex Presidente statunitense Donald Trump aveva esortato il Presidente israeliano Herzog a concedere il perdono a Netanyahu per le accuse di corruzione, sottolineando il legame tra la sopravvivenza legale del leader e il supporto politico internazionale.
Il Veto Politico sul Piano di Pace
Netanyahu sta trasformando la pressione geopolitica esterna nel suo principale tema elettorale. Il recente accordo di cessate il fuoco, promosso dagli Stati Uniti e annunciato da Trump, include una clausola fondamentale per il “percorso credibile verso uno Stato Palestinese”.
Questa disposizione è stata immediatamente etichettata come “criptonite politica” per Netanyahu. Egli sfrutterà la sua storica opposizione alla soluzione a due Stati, presentandosi agli elettori come l’unico leader in grado di bloccare un esito che molti israeliani, dopo il 7 ottobre, rifiutano ancora di più. Questo pivot gli permette di spostare il focus dal suo fallimento di sicurezza alla sua presunta indispensabilità contro le minacce geopolitiche.
La Fragilità della Coalizione
Il destino di Netanyahu dipende anche dalla tenuta della sua coalizione. I partner di estrema destra, in particolare il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir, hanno minacciato di dimettersi se l’accordo di pace dovesse avanzare. Ben-Gvir ha posto un ultimatum chiaro: o lo smantellamento completo di Hamas e l’attuazione della pena di morte per i terroristi, o la fuoriuscita del suo partito.
Se i partner di destra dovessero lasciare il governo, si scatenerebbero elezioni anticipate. Tuttavia, gli attuali sondaggi suggeriscono che il Likud di Netanyahu e i suoi alleati non riuscirebbero a ottenere una maggioranza alla Knesset. L’opposizione centrista, guidata da Yair Lapid, ha già messo in guardia che una vittoria di Netanyahu alle prossime elezioni segnerebbe “la fine del Sionismo”.
Per Netanyahu, quindi, la ricandidatura non è un desiderio, ma una necessità: mantenere la carica è l’unico modo per controllare il calendario politico, ritardare l’inchiesta e presentarsi come il difensore indomito della nazione in un momento di crisi.